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Il Sorpasso

Dal 1 al 4 febbraio 2018
Il Sorpasso

Il Sorpasso © Mirta Lispi

Un film di culto come “Il sorpasso” capolavoro di Dino Risi, rivive a teatro grazie all’adattamento scenico di Micaela Milano e alla regia di Guglielmo Ferro, col difficile compito, per Giuseppe Zeno e Luca Di Giovanni, di cercare di non essere schiacciati dal peso delle indimenticabili interpretazioni di Vittorio Gassman e Jean-Louis Trintignant.

La strada scivola veloce, alle spalle di Bruno: non sta andando da qualche parte, sta andando più lontano. Al suo fianco Roberto, che invece ben conosce la propria destinazione, o perlomeno così credeva fino a oggi. Proprio oggi infatti ha incontrato Bruno, che nella Roma deserta di un Ferragosto primi anni ’60 lo ha convinto, tra una battuta e l’altra, a fare un giro: per una volta, senza meta.

Non capita spesso che sia il teatro a ispirarsi al cinema, ma il regista dello spettacolo Guglielmo Ferro ha deciso di fare un’eccezione, per il capolavoro diretto nel 1962 da Dino Risi e sceneggiato, oltre che dallo stesso Risi, da Ettore Scola e Ruggero Maccari.

E nel mantenersi estremamente fedele al testo, perfino alla dinamica del film, con immagini di città e campagne in bianco e nero che sanno accompagnare con cura gli attori in scena, Ferro finisce non soltanto per rendere omaggio l’opera a cui si ispira con classe ma, paradossalmente, anche per reinterpretarne lo spirito.

Bruno e Roberto animano sul palco, grazie anche alla dinamica e robusta interpretazione di Zeno e di Di Giovanni, un dialogo già scolpito nella storia italiana: si scambiano i medesimi dubbi, le stesse speranze. Non sono gesti e parole a mutare, sono gli occhi con cui li guardiamo, le orecchie con cui li ascoltiamo. Si vivono, sulla scena, giorni lontani forse non soltanto nel tempo: la fase ascendente dei Trente Glorieuses del Secondo Dopoguerra, anni in cui il potere d’acquisto aumenta a vista d’occhio, per tutti e «perfino i disoccupati, ormai, hanno una macchina», come ci ricorda Bruno.

E mentre, tra un colpo di clacson e l’altro, i due si avviano, così diversi eppure in qualche modo accomunati da un nuovo slancio che cresce, da una voglia di scoperta e di movimento, sembrano trasfigurarsi, da persone in carne e ossa a, per dirla con Balzac, tipi umani, di una commedia già svolta e che pure, in diversa forma, pare potersi raccontare, ancora, in un’altra chiave.

Ci si sorprende così a chiedersi, proprio quando il finale, tragicamente, salda i conti con la realtà, anche in un mondo che pareva schiudersi a ogni possibilità, quali siano gli occhi e l’età di spirito che il capolavoro ci lascia, ancora, in dono: lo sguardo giovane, forse ingenuo, ma gravido di nuovi sogni o la temperata stagione di uno spirito ancor vivo, eppure consapevole? O entrambi?

Forse è ancora Bruno a risponderci, col sorriso amaro della migliore commedia all’italiana, che sa trovare stimoli e slancio anche, se non soprattutto, nel solo apparente cinismo di una tagliente ironia: «L’età migliore, in fondo, è quella che uno ha. Finché nun schiatti».

Damiano Verda